Zeroglifici sonori. Omaggio
ad Adriano Spatola
Intervento presentato alla Conferenza AAIS/AATI di Taormina, 24 maggio 2008
Circa due mesi fa, esattamente fra il 6 e l’8 marzo, l’università
della California di Los Angeles e l’Otis College of Art and Design
hanno ospitato una tre giorni di conferenze per celebrare il ventesimo
anniversario dalla morte di Spatola. In quell’occasione, Alessandro
Marianantoni ed io abbiamo presentato l’installazione Zerogliphycsssssss!
(con sette esse) BETA, un omaggio alla poesia di Spatola.
Una prima, ineludibile domanda riguarda la scelta della città:
perché Los Angeles?
Le risposte possibili, mi pare, sono tre. In primo luogo per ragioni biografiche.
Se non si può dire che Spatola abbia frequentato assiduamente Los
Angeles, ci è però tornato con una certa regolarità
nel corso degli anni.
In secondo luogo, molti dei suoi amici americani, o trapiantati in America,
vivono e lavorano qui (e penso soprattutto a Luigi Ballerini e a Paul
Vangelisti, organizzatori della conferenza di marzo).
E infine mi piace pensare che Los Angeles abbia delle ragioni strutturali
per ospitare convegni sulla poesia di Adriano, che in un certo senso sia
una città spatoliana nell’architettura e nel piano urbanistico,
con la sua sintassi spiccatamente paratattica, l’assenza di un centro,
il succedersi dei quartieri tutti sullo stesso piano, collegati e demarcati
dalle autostrade. Ma questo è un tema su cui torneremo più
avanti.
Per giustificare l’appropriazione da parte nostra delle idee di
Spatola in fatto di zeroglifici e di poesia concreta (o visiva, o sonora,
ma forse Adriano avrebbe preferito l’etichetta di totale) e il loro
utilizzo in questo nostro lavoro, vorrei da un lato spiegare il procedimento
che abbiamo seguito per la sua realizzazzione pratica; dall’altro
mi piacerebbe concentrarmi su tre parole, che, in fase di pre-produzione,
ci sono servite da linee guida. Cominciamo, dunque, dalla spiegazione.
L’audio che avete ascoltato e che accompagnava le immagini costituisce
il nucleo centrale dell’installazione. Per alcuni mesi Alessandro
ed io ci siamo aggirati per il campus di UCLA importunando amici, conoscenti
e semplici passanti allo scopo di ottenere da loro che prestassero la
propria voce alla poesia di Spatola. Adescate così le nostre cavie,
e condottele nel chiuso dello studio di registrazione, abbiamo fatto leggere
loro la raccolta di poesie Diversi Accorgimenti, sia nella sua versione
originale in italiano, che nella traduzione in inglese di Paul Vangelisti.
Dai files digitali ottenuti nel corso di queste sedute, sono stati automaticamente
generati, attraverso il computer, dei campioni audio della durata compresa
fra i 4 decimi di secondo e 1 secondo.
Questi frammenti di parlato hanno poi costituito la base dati impiegata
nel corso dell’installazione. I campioni venivano “suonati”
in tempo reale da un computer che utilizzava come modello una libreria
di melodie generate automaticamente. Il tempo della musica, infine, veniva
determinato dal grado di movimento all’interno dello spazio espositivo,
per come lo registrava una telecamera opportunamente orientata verso gli
spettatori.
Il risultato finale era dunque un riassemblaggio continuo delle poesie
di Spatola. Così come i suoi zeroglifici azzeravano il segno linguistico
grafico fino a privarlo di senso convenzionale, per poi ricombinarlo secondo
una nuova sintassi a-grammaticale, o diversamente gramaticale, allo stesso
modo la nostra installazione intende ridurre il significante fonetico
a semplice modulazione di frequenza, da ricomporre secondo modalità
musicali invece che verbali. Per queste ragioni il titolo di zeroglifici
sonori non ci sembrava un’appropriazione del tutto indebita.
Tanto dovrebbe bastare a spiegare il come abbiamo fatto quello che abbiamo
fatto, e del resto per entrare più nei dettagli (e spiegare le
tecniche che abbiamo seguito, la maniera in cui i programmi per il computer
sono stati scritti, e il tutto, poi, messo insieme e fatto funzionare)
avremmo bisogno di Alessandro Marianantoni, che ha curato precisamente
questa parte del lavoro. Passiamo, dunque, al perché abbamo realizzato
questa installazione utilizzando a questo scopo le tre parole di cui parlavamo
in apertura: e cioè zeroglifico, problema e ponte.
Zeroglifico è naturalmente modellato su geroglifico, ma le differenze
fra le due etimologie sono per noi di fondamentale interesse. Spatola
sostituisce a “gero”, ”zero”, lasciando invece
inalterato “glifico”. Hieros, in greco antico, designa ciò
che riguarda il sacro, mentre glifico viene da glyphein, graffiare, incidere
o scolpire.
In una sua breve monografia sull’argomento, Giulia Niccolai scrive
che la parola zeroglifico (e cito) “comunica l’annullamento
del messaggio semantico e la presenza di quello iconico”.
Mi sembra che questa definizione catturi alla perfezione la doppia valenza
dell’operazione implicita nello zeroglifico spatoliano. Da un lato
la pars destruens dell’azzeramento, “l’annullamento
del messaggio semantico”. Dall’altro la pars construens, l’aspetto
propositivo dello zeroglifico, che graffia, incide e scolpisce un senso
nuovo, “iconico” nella terminologia di Niccolai. Ed infatti
lo zeroglifico da una parte distrugge il linguaggio quotidiano, strappando
alla parola scritta la sua valenza strutturale, riducendola a semplice
groviglio di linee e spazi; ma dall’altra costruisce, partendo dal
rumore così ottenuto, un linguaggio altro, nuovo, dotato di una
sintassi minima eppure precisa, affidata a due operatori: la giustapposizione
e il taglio.
Il testo visivo va dunque letto come un sistema di notazione musicale,
uno spartito i cui elementi, una volta appartenuti al linguaggio, sono
ora dei significanti puri, svuotati di ogni valore convenzionale e pronti
ad essere investiti dei signigicati più diversi.
Si potrebbe sostenere che il tipo di sintassi descritta sopra operi anche
nei testi di poesia lineare di Spatola. Ci manca qui il tempo per approfondire
questa osservazione, e ci corre, dunque, l’obbligo di segnalarla
semplicemente come uno spunto per ricerche future.
Ma perché darsi la pena di creare una nuova sintassi? E perché,
soprattutto, chiedere alla gente di leggere le poesie di Spatola, per
poi frantumarle, mescolarle e ricomporle?
Mi pare che la risposta a queste domande si possa trovare nella seconda
delle parole su cui vorrei riflettere: e cioè problema.
Abbiamo incontrato diversi problemi nel maneggiare i testi di Spatola,
e la maggior parte delle persone a cui abbiamo chiesto di leggere le poesie
raccolte in Diversi Accorgimenti hanno, allo stesso modo, dovuto affrontato
i loro, di problemi. L’aspetto più divertente di tutta l’operazione
è che molti dei meno esperti nel frequentare la poesia contemporanea,
puntualmente, alla fine della lettura, dicevano: “Non sono sicuro
di aver capito bene di cosa parlasse, ma hai sentito che roba? Stupendo!”
Ed è precisamente di questo tipo di problemi che mi piacerebbe
parlare brevemente, problemi di un tipo particolare, di cui si vorrebbe
avere gran numero.
Per spiegare l’uso che abbiamo fatto di questa parola, occorrerà
ricordarne l’etimologia, il che, una volta di più, ci riporterà
al greco antico. Pro e ballein sono i due elementi che costituiscono il
problema; pro vuol dire davanti, e ballein può significare, a seconda
dei contesti, lanciare, mettere oppure porre.
Ora, il problema è dunque, etimologicamente parlando, un ostacolo,
un qualcosa oltre il quale occorre lanciarsi, che bisogna scavalcare.
E mi pare che l’attività di risolvere problemi, di scavalcare
gli ostacoli, sia squisitamente attività umana. Vale la pena di
fare altro nella vita? Ancora di più, direi che rispetto alla questione
dei problemi, l’umanità possa dividersi, senza semplificare
troppo grossolanamente, in tre categorie.
La prima, popolata da coloro che posseggono le soluzioni, le risposte.
Per costoro, una volta incappati in un problema, si tratta di trovare
una soluzione alla svelta, e che possa durare quanto più a lungo
possibile. Una volta individuatala, l’adottano incondizionatamente,
in modo da poter smettere di pensarci, e continuare a vivere tranquillamente.
Di costoro non ragioneremo, ma, piuttosto, guarderemo e passeremo.
La seconda categoria comprende coloro che trascorrono la vita a risolvere
problemi. Viaggiano di paese in paese, d’isola in isola, alla ricerca
di nuovi problemi da risolvere. Quando finalmente decidono di fermarsi
in un posto, di mettere la testa a partito, di smettere di risolvere problemi
(enigmi) quello è il momento in cui muoiono.
È il caso di Ulisse, così come di tutti gli homini activi.
E infatti Tiresia, evocato dall’Ade a bella posta, profetizza (e
qui leggo dalla traduzione dell’Odissea di Emilio Villa):
“...Oh, certo, arrivato, tu li punirai, i proci che dimorano
in casa tua, per le loro sopraffazioni, e li accopperai,
o a tradimento o in aperto duello con il bronzo
affilato: ma poi ti toccherà di riprendere il remo
ben levigato, e ripartire; e finirai allora
in mezzo a gente che non conosce il mare,
e che mangia cibi senza sale, e non conosce
le rosse fiancate delle navi, né i ben levigati
remi, che son le ali delle navi. Ora ti rivelo
un chiarissimo segno, il cui senso non ti sfuggirà:
t’imbatterai in un viandante che ti chiederà
perché tieni sul tuo glorioso omero una pala;
bene, è allora che tu dovrai celebrare stupendi
riti sacrificali a Poseidone re, con un ariete,
con un toro e con un cinghiale che monta scrofe;
e infine conficca in terra il ben levigato remo;
quindi ritorna a casa a fare le sacre ecatombi
nell’ordine del rito, a tutti gli immortali dei
che occupano le distese celesti. Allora sì
che una placida morte verrà dall’acqua salsa, e tale
che ti faccia morire carico di anni lietamente
vissuti, circondato da tribù felici.Queste,
queste sono le verità ch’io ti predico”.
(Canto XI, p. 198)
Il che vale a dire che nel momento in cui Ulisse di fronte all’enigma
di un viandante che prende un remo per una pala, si rifiuta di spiegare
il prodigio, ma si limita a contemplarlo, quando avrà ormai rinunciato
alla più umana delle qualità, al desiderio di comprendere
e alla necessità di conoscere, di risolvere enigmi, in quel momento
Ulisse smette di essere un eroe e viene declassato ad una dimensione meramente
umana, quasi in senso degenere. Allora sarà felice e potrà
tornarsene ad Itaca, ad aspettare una morte “dall’acqua salsa”che
lo porterà via ormai carico d’anni.
Ci resta di popolare la terza categoria umana, in fatto di problemi,
categoria che è composta da coloro che invece che risolvere problemi,
li creano, gli inventori di enigmi (labirinti, giardini). Ed è
questa la specie d’uomini più interessante, che riesce a
sopravvivere alla propria morte fisica, attraverso il numero di problemi
che si lascia alle spalle. E mi pare che Spatola appartenga a questa terza
categoria.
L’installazione che abbiamo proposto cerca, dunque, di fabbricare
alcune soluzioni temporanee ai problemi di Spatola. Con essa abbiamo cercato
di risolvere i suoi enigmi, perderci nei suoi labirinti, passeggiare nei
suoi giardini, lanciarci al di là dei suoi ostacoli, per vedere
cosa c’è dall’altra parte.
E queste considerazioni mi portano alla terza e ultima parola in programma:
ponte. Avrete notato come l’elemento visivo dell’installazione
si concentri su alcuni ponti (ma anche sottopassaggi, gallerie, rampe
d’accesso e d’uscita dell’autostrada). Si tratta di
alcuni fra i più famosi dell’area urbana di Los Angeles,
e mi pare che la loro presenza vada in qualche modo spiegata. La ragione
alla base di questa scelta è duplice.
In primo luogo ci piaceva l’idea del ponte come soluzione a un problema
urbanistico. Se un problema costituisce (etimologicamente) un’occasione
per gettarsi al di là, per scavalcare un’ostacolo, allora
il ponte ci sembra la perfetta metafora urbanistica di un problema, e
della sua soluzione.
In secondo luogo ci interessava la funzione da punto di sutura svolta
dal ponte all’interno del tessuto urbano. Serve, infatti, a ricucire
insieme due parti della città separate da un qualche ostacolo (sia
esso naturale o artificiale).
In termini euclidei, se i fiumi (perfino il Los Angeles river), le strade
e le autostrade e i canali di comunicazione in generale, che i ponti scavalcano
(risolvono), servono a collegare due punti, A e B, nello spazio, allo
stesso tempo, queste vie di comunicazione sezionano il piano cittadino,
funzionando da confini, da barriere fra aree diverse. Segnano quasi delle
cicatrici nel tessuto urbano dividendolo in quartieri, in aree diverse.
I ponti funzionano, dunque da punti di sutura: servono a ricucire i tessuti.
Ed è questa una riflessione che ci è piaciuto applicare
in due modi diversi.
Come metafora del lavoro che abbiamo svolto sulle poesie di Spatola: abbiamo,
infatti, tracciato dapprima delle autostrade attraverso le sue poesie,
allo scopo di connettere fra di loro letture di persone diverse, per poi
ricucirle, come fanno i ponti, per risolvere temporaneamente dei problemi,
per trovare una nuova sintassi.
E, poi, come metafora della lingua poetica. Se il linguaggio di tutti
i giorni funziona come un’autostrada, utile per collegare nel minor
tempo possibile i punti A e B nello spazio (e dunque utile per operare
nel mondo), la lingua della poesia funziona da ponte, scavalca la lingua
di tutti i giorni per ricucire insieme le due aree dell’esperienza
da questa divisa, raggiunge l’altro lato dell’esperienza e
vi trova altri significati, utili a chiarire quel che accade al di qua,
da questo lato della lingua.
Gianluca Rizzo